Scuola d’Eccellenza

Scuola d’Eccellenza uguale tanto studio. È veramente così? In tutti questi anni si è pensato che una scuola d’eccellenza sia sinonimo di tanto studio. Ma è veramente questa la strada per l’eccellenza ? Molto spesso in Italia e anche nelle altri parti del mondo si abbina la denominazione di Scuola d’Eccellenza a uno metodo di insegnamento che porta l’alunno ad avere dei carichi di studio molto elevati.  Come detto nel video proviamo a guardare questo argomento attraverso una metafora. Immagina di andare in palestra, assieme ad altre persone. Magari è la tua prima volta. L’Istruttore vi porta alla panca piana e, dopo una breve spiegazione, chiede a ciascuno di voi di sollevare 100 kg. A detta dell’istruttore, nelle altre palestre si sollevano 50 kg, ma qui è una palestra d’eccellenza e quindi i kg devono essere 100.  Cosa faresti?  La responsabilità del fatto che non riesci a sollevare 100kg è tua o dell’istruttore e della palestra? La scuola come palestra di vita e d’evoluzione. La nostra formazione didattica ed educativa è sempre stata  legata ad un mondo accademico che ci divide in due tipi di profili: l’intelligente o colui che non è portato per lo studio. Ma la realtà è questa? Ovvero chi riesce ad alzare 100 kg e chi no. Al primo colpo. Molte persone brillanti pensano di non esserlo perché la scuola è diventata in questi ultimi decenni un luogo dove devono avere dei risultati e non “la palestra” che li alleni e li guidi ad averli.  Seguendo sempre la metafora della palestra, molto probabilmente ci sarà qualcuno con un “fisico” già predisposto e molti altri con un “fisico” diverso, non pronto subito al sollevamento di 100kg. Ma sicuramente un fisico che può essere allenato. Che può arrivare nel tempo a sollevare i 100kg e anche di più.  Torniamo alla palestra. Perché l’istruttore, dopo avervi fatto sollevare i 100kg vi chiede di fare 100 squat (piegamenti con le gambe). Qualcuno chiede perché non si fanno altri esercizi per la parte superiore del corpo. L’istruttore risponde che bisogna andare avanti col “programma”. Lo scopo primario di uno studente molto spesso è semplicemente il voto o passare l’esame. Poco importa se quello che si è imparato a memoria dopo poche settimane scompare, rimpiazzato dalla prossima interrogazione o dal prossimo esame.  Siamo sicuri che questo modello applicato nella maggior parte delle scuole e anche nelle scuole d’eccellenza, semplicemente aumentando il carico, sia veramente la massima espressione della scuola e dell’apprendimento? Nel video scopri cosa ne pensa Luca. https://www.youtube.com/watch?v=kMRvnsL7iPo&t=77s Cos’è veramente l’eccellenza? Su questo argomento torneremo nel dettaglio nei prossimi articoli.  Per noi una scuola d’eccellenza si veste a misura di ragazzo, si interroga sui suoi bisogni e si mette in discussione con le generazioni attuali. I valori dei ragazzi sono molto cambiati negli ultimi anni e occorre una scuola dinamica che abbia al centro del suo progetto lo sviluppo del potenziale umano. Una scuola d’eccellenza deve preparare didatticamente i propri alunni con i contenuti didattici del programma italiano ministeriale, uno dei migliori al mondo, e  prepararli alla vita con abilità trasversali e soft skill. Come nel mondo reale, la scuola ti deve porre delle sfide da affrontare e dei limiti da superare. Scegliere una scuola di eccellenza secondo la IEXS vuol dire prepararsi ad essere una persona di valore e portare valore agli altri. “Una scuola dovrebbe permettere ad uno studente di sentirsi sicuro, protetto e di vivere in un ambiente che vuole veramente il suo meglio.” (nel video le altre parole della Lucy) Per la IEXS il fulcro della crescita dei ragazzi sono i professori. Un team di docenti che si pone come guida intorno il ragazzo e che lo segua non solamente nel suo percorso didattico ma anche in quello formativo della persona. In una scuola eccellenza lo studente non si sente un numero ma al centro di tutta la sua istruzione didattica e personale. La scuola è il laboratorio nel quale si costruisce il presente e il futuro della società. La scelta e l’evoluzione della scuola sarà determinante per le prossime generazioni che si dovranno adattare a un mondo i cui valori e comportamenti cambiano molto rapidamente. Nicola https://www.youtube.com/watch?v=IddEMjrDeUo&t=1s

LE SOFT SKILL: le competenze che ancora non sapevi di avere

Le soft skills sono caratteristiche personali e caratteriali differenti e trasversali rispetto alle capacità tecniche apprese nei percorsi formativi e durante le esperienze di lavoro. Non lasciarti ingannare dal termine “soft” ad oggi sono proprio queste skill a fare la differenza nel mondo del lavoro e nei processi di recruiting.Si tratta, dunque, di una serie di attitudini che ti qualificano a prescindere dal titolo di studio e che, ad oggi, sono molto richieste in ambito lavorativo. Eccone alcune particolarmente importanti su cui puoi cominciare a farti un’idea: ➢ capacità di lavorare in team➢ capacità di lavorare sotto stress➢ negoziazione➢ problem solving➢ determinazione nel raggiungimento di obiettivi➢ elasticità e capacità organizzativa➢ gestione dell’imprevisto ➢ competenze comunicative➢ gestione del tempo➢ leadership Le soft skills non sono solo il nostro modo di porci nei confronti del lavoro, rappresentano proprio il la maniera in cui comunichiamo con gli altri e con noi stessi. Che tu voglia fare il libero professionista, il manager o l’imprenditore sappi che devi imparare a riconoscere e sviluppare al meglio le tue soft skills. Con le soft skill migliori l’approccio al lavoro, alla vita e anche con te stesso, rendi la tua interazione con gli altri produttiva ed efficace il che si trasferisce in una maggiore produttività anche in ambito aziendale. Soft skills e hard skills (intendendo per hard skills le competenze tecniche, specialistiche e comprovabili) viaggiano a braccetto nella struttura di una figura professionale completa e attuale. Secondo recenti studi pare addirittura che nel mondo del business addirittura il 75% del successo di un lavoro dipende dal possesso delle soft skills. Ma se le hard skills richiedono anni di studi, aggiornamenti ed esperienza pratica-lavorativa le soft skills sono ancora più difficili da assimilare secondo gli schemi ordinari di apprendimento e ancora più sono molto difficili da valutare in maniera quantitativa e qualitativa. È da questa urgenza che nasce l’idea di far si che ci sia un corso di studi, un percorso professionale e didattico incentrato sull’acquisizione di questi fondamentali aspetti e che, pertanto, ti dia la possibilità di dimostrare la propria preparazione anche in questo ambito. Le soft skills, come abbiamo detto, sono delle abilità trasversali che possono essere suddivise a loro volta in abilità interne e riguardano il modo in cui lo studente o il lavoratore interagisce con se stesso ed abilità esterne, che invece hanno a che fare con il modo in cui vengono gestite le relazioni con gli altri. Insomma le soft skill sono quelle caratteristiche personali che possono fare la differenza nel momento in cui ti presenti ad un colloquio di lavoro e vanno dalla flessibilità, alle capacità comunicative, dalla capacità di gestire situazioni scomode o di conflitto alla autocritica. Ciò che è importante capire quando si tratta di soft skills è che al di là della propria attitudine caratteriale, che ci rende più o meno propensi allo sviluppo di determinate soft skills rispetto ad altre è che più maturiamo queste incredibili capacità più siamo pronti a presentarci e sostenere il mondo del lavoro e non solo. Sembra semplice vero? Ma non lo è.. non vogliamo spaventarti ma per acquisirne un numero sempre maggiore spesso occorre anche lavorare su se stessi, sugli aspetti più intimi e personali di noi e occorre poi far si che tutto ciò sia visibile, applicabile e comprovabile.Insomma serve studiare, esercitarsi e dare ascolto ai professionisti del settore. Ecco un breve elenco di quali sono le soft skills più spendibili nel mondo del lavoro quelle su cui far leva durante i colloqui o durante l’interazione con i vari reparti di recruiting.

Il fallimento del metodo scuola tradizionale

“Come dimostrano tutte le ricerche neuroscientifiche, bambini e ragazzi apprendono dall’imitazione (i neuroni a specchio!), dall’interazione sociale con i compagni e nel fare esperienza diretta, usando le conoscenze acquisite imparano ad affrontare i problemi. La lezione frontale, nelle scuole, non è un buon mezzo di apprendimento. Lo sostengono in molti, tra cui il pedagogista Daniele Novara che dell’argomento parla nei suoi libri e spesso interviene in convegni e dibattiti. Mille ragioni psicoevolutive e neurocerebrali ci dimostrano che apprendere dalla lezione frontale è molto difficile, per non dire impossibile.   La scuola italiana è ingabbiata nella didattica della “risposta esatta”. Quiz e test a crocette, erroneamente considerati strumenti didattici moderni, sviliscono le capacità di apprendimento di ragazzi.  Per questo motivo riteniamo urgente investire sulla formazione metodologica degli insegnanti, dalla scuola primaria alle superiori, offrendo loro dispositivi pedagogici innovativi, per liberarli finalmente dagli sterili automatismi del passato.    L’equivoco di base La scuola italiana ha un problema che si perde nella notte dei tempi. Un equivoco, profondamente radicato e pervasivo, che ha un nome preciso: lezione frontale. La didattica della scuola italiana si basa ancora sulla convinzione che il metodo più efficace perché bambini e ragazzi apprendano un argomento consiste nel leggere loro un testo, a cui segue la spiegazione dell’insegnante. La lezione frontale richiede molta capacità di attenzione, che, come dimostrato da tante ricerche neuroscientifiche, non è sostenibile neanche dagli adulti, figurarsi da bambini e ragazzi. La lezione frontale non implica alcuna competenza pedagogica: si spiega, si richiede agli studenti lo studio individuale, attraverso la ripetizione dei contenuti spiegati, e, infine, si interroga e si valuta l’alunno. Una questione di attenzione L’attenzione è “selettiva”, ossia sceglie di cogliere alcuni stimoli e ne ignora altri, da cui il cervello è bombardato simultaneamente. I bambini sviluppano presto l’attenzione “selettiva” e, piano piano, crescendo diventano capaci di gestirla in modo “volontario”, sviluppando nell’adolescenza una sempre maggiore capacità di concentrazione. Mantenere l’attenzione costante nel tempo, così come richiesto dalla lezione frontale, non è un processo stabile e progressivo, bensì un’alternanza continua, quasi ciclica, tra momenti di attivazione e pause. È un processo fisiologico, estremamente individuale, influenzato da numerosi fattori: le risorse individuali, la motivazione, le caratteristiche personali, la stanchezza. La massima capacità di attenzione si registra attorno ai 18/26 anni e non supera i 40/45 minuti di tempo. In classe l’apice di attenzione raggiunge i 10 minuti, poi cala progressivamente per altri 20 minuti e riprende a salire dopo circa mezz’ora dall’inizio della lezione. Inoltre, considerato che in classe alunni e studenti sono sottoposti a infiniti fattori di interazione e disturbo, è facile rendersi conto come la lezione frontale sia chiaramente fallimentare. Quindi, dopo 50 minuti di spiegazione, è normale che i ragazzi abbiano adottato la tecnica dello sguardo catatonico: si concentrano sull’insegnante senza minimamente ascoltarlo. Non si impara da soli Il migliore processo di apprendimento non si attiva mai in solitudine, ma nello studio di gruppo. Il genio intellettuale, che studia isolato, come Vittorio Alfieri che si lega alla sedia o Giacomo Leopardi rinchiuso nella biblioteca paterna, non sono modelli ma personaggi speciali, l’eccezione che conferma la regola. Le scoperte legate al sistema dei neuroni specchioconfermano l’importanza dell’interazione sociale per imparare: osservando gli altri nel nostro cervello si attivino le stesse aree necessarie per acquisire quelle informazioni. Inoltre, il gruppo attiva numerosi elementi emotivi e motivazionali e favorisce le capacità cognitive. La scuola, per sua natura sociale, gestisce un processo di apprendimento di gruppo, in cui la logica dell’isolamento è fuori contesto. Purtroppo nella pratica tutto ciò non viene minimamente considerato nella scuola italiana, anzi, constatiamo quotidianamente che nella maggior parte delle classi di ogni ordine e grado ha ancora un ruolo egemone la lezione frontale, che prevede la trasmissione nozionistica e individuale della risposta considerata “esatta”, che deve essere rielaborata in solitudine, nella convinzione diffusa che il confronto con gli altri sia solo una perdita di tempo, un elemento che disturba il tradizionale processo di apprendimento. La didattica digitale, di male in peggio A un certo punto è comparso il digitale, con la presunzione di poter risolvere i problemi della scuola italiana. Di male in peggio. Programmi e investimenti si sono tutti rivolti alla tecnologia nella convinzione che in questo modo si sarebbe miracolosamente risolto il progressivo declino di motivazione, interesse e rendimento scolastico delle nuove generazioni di bambini e ragazzi. Invece, a un problema irrisolto ne abbiamo aggiunto un altro, che peggiora ulteriormente la situazione. Il digitale, infatti, crea dipendenza da stimoli visivi e interattivi e diminuisce l’interesse nei confronti della realtà rendendo ancora più fragile la capacità di attenzione. In particolare nei più piccoli, i videoschermi impediscono il corretto sviluppo di alcuni schemi motori alla base di fondamentali meccanismi cognitivi. Le ricerche scientifiche sono giunte a una conclusione inequivocabile: quando impariamo a leggere e scrivere iniziamo a riconoscere le lettere in base a linee, curve e spazi vuoti, e mettiamo in atto un processo di apprendimento tattile che richiede l’uso sia degli occhi che delle mani stimolando la strutturazione di importanti circuiti cerebrali dedicati alla lettura, che si attivano solo quando provando a scrivere le lettere a mano e non digitando su una tastiera. Scrivere a mano sviluppa capacità visive, viso-motorie e viso-costruttive che l’uso della tastiera non stimola. Inoltre, la motricità fine legata alla scrittura influenza anche le capacità mnemoniche. Da recenti studi emerge un altro fatto molto interessante che nella scuola primaria i temi scritti a mano libera risultano più creativi e, migliore anche per la capacità critica. Insomma, la tastiera o la tecnologia touch, introdotta fin dalla tenera età, ha dimostrato di produrre più danni che benefici. Per diventare uno strumento utile all’apprendimento la tecnologia deve restare all’interno di una cornice di utilizzo collettivo e sociale come può essere il caso di due o tre computer da utilizzare a gruppi in classe o della LIM (Lavagna Interattiva Multimediale) viceversa l’uso individuale porta all’isolamento e provoca gli effetti negativi già ricordati. Un nuovo modello: azione, osmosi, opportunità Quello che propongo non è un metodo definito una volta per tutte. Ritengo che l’elemento discrezionale dell’apprendimento a scuola richieda la competenza pedagogica dell’insegnante, la cui abilità consiste proprio nel trovare la via adatta alle caratteristiche del singolo alunno e dello specifico gruppo classe. Esistono però delle condizioni a partire dalla quali

Il MIUR si apre all’innovazione della scuola. Partendo dal suo cuore.

La IEXS è paritaria. Ottenuto dal MIUR il riconoscimento di scuola paritaria per primaria e secondaria di 1° grado. “..robotica.. dalle 9.00 alle 11.00.. arte  esperienziale… terza e quarta ora..” “..e nel pomeriggio..?” “..project work di biotecnologia..! Ci vediamo a casa..!”   Non è un frammento di dialogo da RITORNO AL FUTURO!  Potrebbe essere la sintesi della giornata di uno studente della IEXS – International Experiential School – di Reggio Emilia.  Facciamo un passo indietro. È certo quanto affermato al World Economic Forum del 2020: siamo ormai andati oltre la IV Rivoluzione Industriale o Industria 4.0. L’inarrestabile avanzamento tecnologico e la crescente digitalizzazione dell’economia colorano di obsolescenza le conoscenze tradizionali. Il WEF indica le 10 competenze più richieste: problem solving in situazioni complesse, pensiero critico, creatività, gestione delle persone, coordinarsi con gli altri, intelligenza emotiva, capacità di giudizio e prendere decisioni, orientamento al servizio, negoziazione, flessibilità.    In questa rincorsa al futuro in chiave economica e sociale la Scuola come si rinnova?  La risposta arriva dalla innovativa scuola di Reggio Emilia, la International Experiential School che, come da tradizione di alto livello educativo/didattico della regione Emilia Romagna, ottiene dal MIUR il riconoscimento di scuola paritaria Human Centered per primaria e secondaria di 1° grado, dove non solo si raggiungono gli obiettivi ministeriali e comunitari ma si sviluppano anche le competenze trasversali, le soft skills, l’intelligenza emotiva e i talenti dei singoli ragazzi. Grazie all’ottimo lavoro dell’Ufficio Regionale di Bologna che ha coordinato ed accolto le innovazioni proposte e gli eccellenti risultati del lavoro della IEXS iniziato 5 anni fa: preparazione degli alunni sopra la media, sviluppo dell’intelligenza emotiva e delle competenze trasversali e un tasso di benessere degli studenti del 98% degli studenti dalle elementari alle superiori. Un ulteriore passo avanti nell’evoluzione della scuola emiliana.   Gli  anni di ricerca e sviluppo hanno permesso di integrare la migliore preparazione didattica con lo sviluppo dell’intelligenza emotiva, del potenziamento delle lingue e l’evoluzione di una struttura Human Centered. Questo importante riconoscimento non ha fermato la IEXS che si è spinta ancora oltre chiedendo al Ministero a Roma la sperimentazione con il Liceo Internazionale che allena una mentalità imprenditoriale e le soft skills del futuro. Il Liceo IEXS copre indirizzi umanistici, scientifici, tecnologici ed informatici. Costruito sull’evoluzione della struttura scolastica, ogni ambito disciplinare è improntato alla creazione, studio e realizzazione di progetti, attraverso le più innovative metodologie di didattica attiva e digitale.    Affiancando lo sviluppo dell’Intelligenza Emotiva e dei talenti di ogni studente: il docente non è più erogatore di contenuti ma Manager di Talenti. Staremo a vedere se Roma saprà accogliere l’innovazione nel mondo della scuola come ha fatto la regione Emilia Romagna.